Sponsa Regis / La Reverdie
La Victoire de la Vierge dans l'œuvre d'Hildegard von Bingen



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medieval.org
Arcana A 314
abril-mayo de 1999
église de Seren, Belluno









01 - Symphonia virginum. O dulcissime amator   [9:15]
Dendermonde, St. Pieters & Paulusabdij Cod. 9 · f. 165v-166r
v 1 2 3 4 · symphonia

02 - Hodie aperuit nobis clausa porta · antiphona   [2:31]
Dendermonde · f. 154v
v 1 2 3 5 · harpe

03 - De Sancta Maria. O splendidissima gemma · antiphona   [4:23]
Dendermonde · f. 154r-154v
v 1 2 3 4

04 - Affluens deliciis David Regis filia · sequentia   [2:23]
München, Universitatsbibl., MS 2∞, 156
psaltérion, flûte, orgue 3

05 - De Sancta Maria. Ave Maria auctrix vitæ · O dulcissima - Gloria · responsorium   [9:28]
Dendermonde · f. 153r-154v
v 1 2 3 4 5  i piccoli cantori

06 - Nunc gaudeant materna viscera · antiphona   [4:20]
Dendermonde · f. 170r-170v
v 1 2 3 4 5

07 - O frondens virga · antiphona · Psalmus XLIV · carmen nuptiale de Regis Messiæ   [7:30]
Dendermonde · f. 155r
v 1 2 3 4 5  i piccoli cantori

08 - Cum erubuerint infelices · antiphona   [2:18]
Dendermonde · f. 155r
v 1 3 5, orgue 2 4

09 - Audi chorum organicum · sequentia   [5:52]
Leipzig, Universitatsbibl., St. Thomas 371 (Graduel-Tropaire)
psaltérion, vielle, harpe, cloche


10 - Lectio I. Apocalypsis, XXII, 1-6, 13-17   [5:11]
Paris, Bibl. Nat., MS 1139
v 3

11 - O tu suavissima Virga · Nam in mystico mysterio · Gloria · responsorium   [9:11]
Dendermonde · f. 156v
v 1 2 3 4 5  i piccoli cantori

12 - O Virga ac diadema purpure Regis · sequentia   [6:53]
Wiesbaden, Landesbibl., Riesenberg Codex · f. 473v-474r
v 1 2 3 4 5  i piccoli cantori

13 - Lectio II. Scivias, III, 8   [1:46]
v 4, orgue 3 1





LA REVERDIE

1  Claudia Caffagni · voix, psalterion, orgue
2  Livia Caffagni · voix, flûte, orgue
3  Elisabetta de' Mircovich, voix, vielle, orgue
4  Ella de' Mircovich, voix, harpe, orgue
5  Elena Bertuzzi, voix, symphonia, cloches

avec la participation du chœur de fillettes

6  I PICCOLI CANTORI DI SAN BORTOLO
Chiara Alessandria, Sara Andreotti, Valeria Bettinelli, Anna Borgato, Laura Busson, Anna Dainese, Rita De Falco, Elisa Garavello, Roberta Ghezzi, Elisa Ivan, Flavia Lunardi, Elisabetta Mazzullo, Barbara Melotti, Giorgia Muneratti, Alessandra Nocera, Maria Rigolin, Carla Romagnolo, Marta Roversi, Milli Saltarelli, Elena Vallinet
& Lorenzo Luciani, orgue

chef de chœur: ROBERTO SPREMULLI
orgue, cloche, pompage







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UNA DONNA PER TUTTE LE STAGIONI


«O VERGENITÀ, IL TUO POSTO E NEL LETTO NUZIALE DEL RE»

(HILDEGARD VON BINGEN: EPISTOLA ALL'ARCIVESCOVO DI BREMA)

«LA CASTITÀ PARTECIPA DELLA CATEGORIA DELLA PUREZZA, LA VERGINITÀ, OLTRE A CIO E INNANZITUTTO, DI QUELLA DELLA PIENEZZA... I PENSATORI INDORUROPEI AVEVANO GIÀ ELABORATO UNA TEORIA BEN ARTICOLATA DELLA VERGINITÀ, SERBATOIO VIVENTE DI POTENZA E FECONDITÀ».

(GEORGES DUMÉZIL : MYTHE ET ÉPOPÉE II)


I. EAM DECEBAT OMNIS SYMPHONIA
HILDEGARD E LA MUSICA

Tutto, e il contrario di tutto è stato scritto e detto di Hildegard. Dal giorno della sua morte in poi — e persino prima, a giudicare dall'Epistolario — le chiacchiere su di lei sono state fin troppo stuzzicanti. Trascorsi novecento anni, il compito risulta tuttora paradossalmente improbo: le alternative si ostinano a oscillare in modo irritante fra il dir tutto e il dir nulla.

In effetti, ad essere sinceri, nella vicenda di Hildegard non ci imbattiamo in niente di clamorosamente sconvolgente o pittoresco: nessuno di quegli ingredienti che offrono appetibili spunti ai biografi di Aliénor d'Aquitania o di Eloisa (l'una corrispondente epistolare della nostra eroina, l'altra sua quasi contemporanea). L'esistenza degli uomini e delle donne di chiesa tendeva di necessità ad essere meno movimentata di quella dei laici, questo va da sé (e dimenticate Eloisa, per il momento): resta il fatto che la biografia di Hildegard, vista 'in superficie' — non dal punto di vista intellettuale e spirituale, s'intende — è semplicemente quella, priva di grandi cataclismi, di una brava ragazza di buona famiglia. Intelligente, sensibile, introspettiva, dotata di una volontà di ferro e forsanche di un certo qual caratterino, (nomen est omen? 'Hildegard' è un classico appellativo da Valchiria, e significa grossomodo 'Protettrice della Battaglia'), fece una splendida — anche se un pizzico tardiva, per il metro dell'epoca — carriera in ambito monastico. Risolse a favore suo e delle sue consorelle alcune fastidiose diatribe legali, viaggiò molto in veneranda età, e compilò (ecco che comincia a far capolino l'eccezionalità) una mole di opere teologiche, scientifiche, visionarie e musical da far invidia ai maggiori intellettuali — maschi — del Medioevo.

Ed è forse qui che ci troviamo sul serio di fronte intramontabile fascino della badessa renana: Hildegard è soprattutto, innanzitutto donna. Una donna la cui stona interiore è stata, secondo
le sue stesse dettagliate descrizioni, tragica ed epica. Stando così le cose, non c'è da meravigliarsi che il suo travaglio psicologico, e le scaturigini artistiche, letterarie, musicali, filosofiche di tale travaglio, continuino a farci esclamare quel che già esclamò rivolgendosi a lei Volmar, suo fido segretario: «O voce che hai melodia e idioma mai sentiti prima!» Probabilmente Volmar alludeva, un po' più prosaicamente di quel che ci piacerebbe fantasticare, alle composizioni musicali di Hildegard, e alla suo cifrario segreto, la Lingua Ignota: non è granché importante. Resta comunque intatta, nei secoli, la stupefatta ammirazione: resta il senso, che ancor oggi ci stordisce, di 'mai sentito', mai ben compreso, e forse in definitiva non comprensibile perché 'altro'.

Essere donna nel Medioevo era, in svariati e spesso subdoli modi, il privilegio e al tempo stesso il marchio di una certa dose di alienazione (nel senso di 'altrità'), di implicita difformità da certi canoni universalmente stabiliti. Come osserva Peter Dronke, nel Medioevo «rispetto agli scritti maschili, quelli di donne sembrano più prossimi alla spontaneità, e indirizzano uno sguardo più interrogativo su di sé». E in Hildegard tutto ciò dovette essere vieppiù acuito dalla sua particolare patologia psicofisica. Da questo punto di vista, perlomeno, disponiamo ormai di una valutazione scientifica alquanto soddisfacente del 'caso clinico von Bingen'. Ad uno storico della scienza, Charles Singer (non a un medievista, il che dovrebbe probabilmente far riflettere), va il merito di aver effettuato per primo l'acuta osservazione di come innumerevoli aspetti sintomatologici e visuali propri alle visioni di Hildegard si inseriscano perfettamente nel quadro delle manifestazioni collaterali ai casi gravi di emicrania.

Curiosamente, questo prezioso dato non è stato granché valorizzato e sfruttato dai successivi biografi ed esegeti hildegardiani. Offrire una 'spiegazione', sotto una certa angolazione quella definitiva, dello straordinario universo interiore e iconico della Santa è forse sembrato a qualcuno nient'altro che un prosaico, squallido anticlimax finale da apporre ad enigmi tanto appassionanti. Non che sia chiaro il perché la facoltà di trasfigurare sciami di fosfemi emicranici in ispirazioni mistiche ed estetiche, o un'iperattività entro l'area cerebrale di Wernicke in un dialogo coerente con la Divinità, non possano essere considerate in se stesse grandi, affascinanti miracoli. La diagnosi più sensata e risolutiva (nella misura in cui un pronunciamento del genere rivesta una qualche utilità — ossia per applicare il rasoio di Ockham ad ulteriori, meno limpide congetture) del mistero-Hildegard potrebbe essere proprio quella di un celebre neurologo: Oliver Sacks, che scorge ammirato in lei un esempio eclatante di come «un evento fisiologico banale, odioso o insignificante per la grande maggioranza, possa divenire, in una coscienza privilegiata, il substrato di un'ispirazione suprema.» Le debolezze, gli handicap di Hildegard (femminilità inclusa), come suoi punti di forza? Tutto qui?

Disgraziatamente — o per fortuna — no. Un approccio così terso diventa automaticamente inapplicabile non appena ci si avventuri in un'analisi più mirata, ideologica e storica, dell'opera di Hildegard. Presso il grande pubblico, che ormai di Hildegard si è appassionatamente innamorato, la questione è ben lungi dall'essere risolta: il che non manca di produrre regolarmente un'incredibile messe di ipotesi, spesso tanto inattendibili quanto divertenti. Tutto fa pensare che si tratti proprio di quel genere di questioni intrinsecamente non risolvibili; potrebbe essere già molto cominciare coll'inserire Hildegard, i suoi scritti — le sue musiche ! — entro un contesto sensato, mediante un'umile triangolazione culturale. Detto in parole povere, strappare Hildegard al vago etereo misticheggiante limbo in cui alcuni si compiacciono di farla galleggiare, depositandola entro uno specifico dominio cronologico del pensiero.

E imponendosi spietatamente di peccare del più bieco riduzionismo, ancorché per amor di chiarezza (o felix culpa!), potrebbe accadere di rendersi conto che i concetti chiave non sono né molti né inafferrabili. A voler essere seriamente iperriduzionisti, e ad evitare di debordare dal libretto del presente CD, si potrebbe addirittura limitarsi a due parole magiche, che come le due facce dell'Anello di Salomone ci consentirebbero di violare il codice dell'Ignota Lingua hildegardiana. Come le formule magiche che si rispettino, il loro suono è notevolmente più astruso della loro funzione:

a) 'Traditio Gregoriana', e
b) 'Platonismo Cristiano Medievale'.
Onde sfrondare un tantino dal loro arcigno arcano questi poco orecchiabili slogan, ci limiteremo, quanto al punto
a) ad invitare il lettore a contemplare tutto l'enorme, venerabile corpus dei canti liturgici della Cristianità occidentale, che, pur con le sue varianti regionali, accomunava gli ecclesiastici, dal Mare del Nord a Roma, in un unico linguaggio musicale; e quanto a quello
b) ad offrirvi in pegno di pace, fra migliaia di sue omologhe, una bella, concisa e recente definizione di Paolo Lucentini: «l'antica alleanza fra la religione cristiana e la metafisica platonica, volta al tentativo di giustificare razionalmente una concezione dinamica della divinità... La ragione naturale, sacra immagine dell'intelletto divino, può salire alle vette della contemplazione teologica».

Esaminando la Symphonia Harmonie Celestium Revelatiomum (repositorio della nostra conoscenza del mondo sonoro hildegardiano, pervenutoci nei due celebri manoscritti di Wiesbaden e Dendermonde — da La Reverdie tenuti entrambi in considerazione durante il lavoro preliminare), due aspetti, stranamente contrastanti fra loro, balzano all'occhio fra i tanti. Uno, forse il più immediato, quello dell'inconsueta estensione dei brani (non di rado due ottave), della complessità, della ricchezza melodica talora rasentante l'ipertrofia. L'altro, quello della precisione, della sottigliezza ma — in fin dei conti — dell'assoluta convenzionalità della scrittura neumatica. Nessuna innovazione grafica, pochi casi di reale ambiguità (agli occhi di un semiologo, perlomeno), se si eccettuano i soliti tristemente noti 'refusi' melodici — più che scusabili, tenendo conto dei frequenti slittamenti di chiave causati dalla sbalorditiva tessitura. Tali refusi di tanto in tanto conducono a bizzarri esotismi modali: il più delle volte (peccato) esorcizzabili mediante l'applicazione di pedestre buon senso musicale. Perfetto esempio di aderenza formale alla summenzionata Tradttio Gregoriana, con buona pace dei musicisti New Age. Eppure, eppure... le Antifone, i Responsori, i metricamente disinvolti Inni e Sequenze di Hildegard hanno davvero qualcosa di speciale.

Non è certo necessario (come talvolta si è romanticamente tentato) reinterpretare fantasiosamente l'ortodossia della scrittura neumatica, con conseguenti pittoresche ripercussioni esecutive, per rendere giustizia, a distanza di poco meno di un millennio, a quel che di speciale queste musiche hanno. Speciali le si giudicava già al tempo di Hildegard. Perché mai, altrimenti, nel 1149 — epoca in cui la Nostra non aveva ancora nemmeno fondato la sua propria casa monastica — il magister Odo le scriveva riverente, dalla lontana Parigi: «si dice che tu abbia creato un nuovo stile di canti»? Perché, cinque anni dopo, la badessa Sofia di Kitzingen, apostrofandola col lusinghiero epiteto di 'Madre Sapienza', le chiede retoricamente per lettera: «Chi non potrebbe sentirsi attratto acusticamente dalle Armonie Celesti (citazione del titolo o semplice coincidenza)?» E ricordate le inaudite melodie di Volmar?

Si ha la netta impressione che anche qui la vera, magnetica forza di Hildegard risieda nei suoi difetti. L'originalità è un difetto, per la mentalità degli intellettuali medievali. Hildegard coltivava il vezzo di mascherare la propria originalità — non rivoluzionarietà, badiamo bene — attribuendola ad una presunta ignorantia; ignoranza fittizia che molti studiosi hanno già smascherato, dimostrando in modo schiacciante l'ampiezza e la poliedricità delle letture di lei, e distruggendo così un altro dei suggestivi luoghi comuni che contribuivano a rendere ancora più simpatica al grande pubblico la volitiva badessa. Hildegard non era affatto ignorante di musica più di quanto non lo fosse di teologia, e fin dall'infanzia era cresciuta con la costante colonna sonora dei canti gregoriani dell'Officio e della Messa. Lei, e le sue consorelle, sapevano perfettamente qual'era il modo convenzionale di eseguire una liquescenza, un quilisma, o una delle grandi progressioni discendenti dei neumi subpunctis tanto amate da Hildegard. Se avessero avuto in mente di vocalizzare qualcosa di realmente nuovo, qualcosa di irrappresentabile nella scrittura codificata, la loro badessa, brava com'era ad inventare nuove terminologie e nuove grafie (vista scritta, la Lingua Ignota farebbe invidia a J. R. R. Tolkien), non avrebbe avuto difficoltà a farlo. Non lo fece: perché la vecchia materia prima era più che sufficiente a realizzare i progetti nuovi della sua creatività.

Il grande periodo classico del Gregoriano era già terminato da secoli, e nuovi, talvolta sensuali, talvolta quasi barocchi manierismi stavano insinuandosi nel repertorio. Non fu certo Hildegard a iniziare questo trend, semmai fu fra li ultimi ad interessarsi alla monodia: e forse considerò sempre con un misto di affetto e di leggera inquietudine quel suo personalissimo, quasi ipnotico modo di trattare le frasi melodiche, di sovvertire certe piccole convenzioni ritmiche, di crogiolarsi un po'troppo nello struggente, tradizionalmente (lo ribadiremo fino alla nausea) 'femminile' Deuterus. A La Reverdie parso che, interpretativamente, non occorressero altri, extra-gregoriani trucchi per smarrirsi, letteralmente, nell'incantesimo melismatico di questa musica che in realtà canta la fine nostalgica, non certo l'inizio clamoroso, di un'epoca del pensiero cristiano occidentale.

A controbilanciare queste incolpevoli (e per noi oggi felicissime) scappatelle dalle recinzioni convenzionali, rimane l'austero, platonicamente impeccabile monumento della teoria musicale hildegardiana. Le speculazioni dei platonisti cristiani medievali in merito ad essa sono assolutamente inconfondibili: e su questo argomento Hildegard è qualche volta più platonica di Platone. Ci sono verosimilmente anche ragioni temperamentali, in questo iperplatonismo hildegardiano: forse (a voler essere sul serio azzardati) un anelito alla regolarità, alla statica pace dell'armonia, particolarmente disperato e emozionalmente intenso in una donna così dolorosamente sensibile all'irregolarità, all'imprevedibilità del suo fisico e della sua psiche. Gli interessi di Hildegard, come giustamente sottolinea Sabine Flanagan, «erano intellettuali piuttosto che mistici. Ella cercava di comprendere il mondo in tutti i suoi aspetti, quello naturale, quello umano e quello divino... Comprensione e spiegazione erano la sua meta, non l'unione con la Divinità o la fusione con essa. Oltre a capire Hildegard voleva cambiare il mondo: in senso generale e rendendo pubblica la sua conoscenza».

Così, questa «libera meditatrice del Dodicesimo secolo, non ancora asservita da Aristotele», come l'ha definita Bernard Gorceix, avrebbe tranquillamente potuto apporre quale introduzione ad un suo ipotetico — ahimé mai scritto — trattato De Musica citazioni platoniche quali: «il custode migliore dell'uomo è la contemperanza di ragione e musica, la sola che alberga per tutta la vita in chi possiede la virtù e può conservarla», «quanto vi è di utile nel suono della musica stato donato all'udito a causa dell'armonia.., non a procurare un piacere irragionevole, ma a ordinare e rendere conseno con se stesso il circolo della nostra anima che fosse diventato discorde» (rispettivamente da Repubblica e Timeo): nessuno si sarebbe accorto del prestito. Certo che all'atarassica contemplazione dell'armonia di uno Scoto Eriugena, di un Onorio di Autun, Hildegard aggiungeva talvolta un sentimentale trasporto che è esclusivamente suo: sono attimi, ma in immagini come quella dell'umanità che, «sentendo una qualche canzone tanto spesso genie e sospira, piena di nostalgia per le armonie celesti» intuiamo la medesima radice da cui sbocciano i sospirosi melismi che rendono unica la musica di lei.

L'umana anima symphonizans postulata da Hildegard altro non è che l'interiorizzazione, la trasposizione dal piano materiale a quello psicologico, del concetto del mundus quasi magna cithara tanto caro ai platonisti di Chartres. Da sempre gli scienziati (i 'filosofi naturali' avrebbero detto allora, e Hildegard è stata una delle poche donne del Medioevo a potersi annoverare a buon diritto nella categoria) hanno usato, come metafora per esprimere la perfezione dell'Universo creato, tecnologica più venerabile della loro epoca: prima della Divina Simulazione Informatica dei giorni nostri e del Divino Orologio newtoniano, dopo il Divino Solido Regolare, c'è stato anche il Divino Strumento Musicale.

Ciò ha portato la badessa ad alcune interessanti speculazioni sul significato e sul ruolo degli strumenti stessi (e, per inciso, ha anche spinto La Reverdie ad insinuare in funzione platonicamente simbolica — quella che il Medioevo attribuiva loro — alcuni strumenti nel repertorio hildegardiano). Speculazioni talmente interessanti, e talmente ricorrenti negli scritti di lei, da far sospettare che la sua dimestichezza con arpe, lire, organi e fiati non si limitasse a quella, puramente letteraria e didascalica, di altri autori. Nella torrenziale Epistola al clero di Mainz, ad esempio (che si potrebbe in realtà definire un succinto, appassionato trattatello sulla musica e in difesa della musica), Hildegard avanza una teoria particolarmente dettagliata in merito al valore spirituale intrinseco degli strumenti, e alle circostanze della loro invenzione: «i Santi Profeti, resi sapienti da quello stesso Spirito che era stato loro infuso, composuerunt — il verbo regge come oggetti tanto i salmi quanto gli strumenti, e si potrebbe forse tradurre con un 'misero assieme', 'fabbricarono' — non solo salmi e cantici, ma anche gli svariati strumenti dell'arte musicale... onde, formati ed addestrati mediante mezzi esteriori, fossero resi edotti anche interiormente».



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II. EGO LIBERA SUM
HILDEGARD E LA VERGINITÀ


Anche per questo appassionante, spinoso argomento, le chiavi che ci aprono il cifrario hildegardiano, le formule magiche pronunciando le quali la Porta si spalanca, sono due. Una il lettore l'ha già incontrata: il buon vecchio, solido 'Platonismo Cristiano Medievale'. L'altra — anche se sempre di Tradizioni si fa menzione — potrà apparire un tantino fuori posto, nel dossier di una Santa (vergine, per di più): 'Tradizione Epica Germanica', col relativo, anche morfologicamente spaventoso corollario 'Teologemi Trifunzionali Indoeuropei' (chi sperimentasse un istante di sconforto, tenti di arginare per il momento i sintomi peggiori di rigetto con la consolante, nonché scientificamente testata, 'pillola' di Dumézil che introduce il presente saggio).

Ci concentreremo brevemente, innanzitutto, suite logiche ripercussioni che la peculiare considerazione platoneggiante della donna poteva avere su una pensatrice come Hildegard: sul suo modo di collocare nel Macrocosmo e nel Microcosmo idee concernenti lo status delle varie categorie femminili, la dignità virginale, il ruolo di Maria donna e vergine, il mistero connesso alla Madonna in quanto 'materia prima' dell'Incarnazione e quindi della Redenzione.

Teniamo ben presente che è probabile che nel paesaggio intellettuale hildegardiano allignasse anche l'immagine platonica della Chora: Platone stesso lo definiva un concetto «difficile e oscuro», che si riferiva al «ricettacolo di tutto quanto si genera, come una Nutrice». E' forse a questo passaggio del Timeo, e alla susseguente metafora basata sulla fusione dell'oro, che Hildegard pensa quando, nella sua Sequenza preferita, quella che da vecchia canticchiava fra sé passeggiando per il chiostro (a data dei redattori degli Atti per la sua santificazione), paragona la Madonna ad un' «aurea materia» con cui Dio plasmò la Salvezza? Tertulliano e Agostino già avevano assimilato Maria alla terra non ancora profanata, al campo non arato (la cosa non sfuggì a Carl Gustav Jung, che vi scorse «un riferimento indiretto evidente alla Koré dei Misteri»).

Hildegard non poteva certo mancare di cogliere le potenzialità, anche estetiche, di questo densissimo simbolismo, cantando Maria come la «lucida materia, materia di luce», «terra dormiente, dove non c'era traccia di quell'umore che permise all'antico Serpente di ingannare la prima donna», colei che «non germogliò grazie alla rugiada o alle stille di pioggia: nemmeno un soffio d'aria ti sfiorò». Era già più che pronta al dogma dell'Assunzione, ottocento anni prima che Pio Dodicesimo lo proclamasse; pronta forse a scorgervi, come fece il succitato Jung plaudendo a tale iniziativa teologica, «la materia finalmente inclusa nel reame della metafisica... La materia originalmente pura, che rappresenta la concretezza del Pensiero di Dio, esattamente ciò che rende possibile l'individuazione».

Questa ineffabile presenza di Maria come elemento di potenzialità assoluta sin dai primordi della Creazione («Egli ti prevedeva sin dal primissimo giorno», citiamo ancora da quella sorta di vera e propria 'piattaforma programmatica' della teologia mariana praticata al Rupertsberg che è la Sequenza Virga ac Diadema) accomuna idealmente — fin quasi a farne una cosa sola — la Vergine tanto all'Ecclesia che alla Sapientia, altre due figure cardine dell'immaginario hildegardiano. L'Ecclesia: vergine e al tempo stesso feconda sposa del Re del Creato, il cui motto araldico nello Scivias è «mi si addice concepire e partorire», nel cui grembo lo Sposo «caput suum reclinat» (e uno degli adagi più amati dai platonisti di Chartres, della philosophia perennis in generale, non era forse «in gremio Matris sedet sapientia Patris»?) Proprio la Sapientia, the dal principio di tutte le cose siede accanto al trono di Dio, e che Hildegard indica alle dilette figlie del Rupertsberg come soror, la sorella, di Maria.

Se le epoche immediatamente successive a lei scoprirono, nell' Etica e nella Politica aristoteliche, alcuni ottimi argomenti per riverniciare a nuovo i vecchi teoremi misogini di alcuni Padri della Chiesa, dal canto loro gli intellettuali cristiani di osservanza platonica avevano coltivato un'idea assai meno squilibrata del valore inerente ai due sessi. Pur ammettendo che la donna non può certo competere direttamente con l'uomo in quanto a forza, ella è ben in grado di possedere virtù virili.

Effettivamente, l'idea the Hildegard ha della donna che coltiva le virtutes (soprattutto della donna vergine, «non gravata dal giogo del maschio» in diretto rapporto col Re di tutte le cose e che perciò «non sotto la tutela o la potestà di alcuno, bensì libera») si accosta a quella delle Fulakides, le Guardiane della Repubblica platonica, «fornite di tali qualità perché affianchino gli uomini nella funzione di governo, dato che sono all'altezza di questo compito ed hanno una natura affine alla loro». Hildegard non si dimentica nemmeno di ribadire spesso e volentieri, oltre alla di lei cosmica colpevolezza, l'originaria maestà della condizione di Eva. Fa acutamente notare come, durante il sonno di Adamo, ella avesse occasione di trovarsi a tu per tu con l'Onnipotente, la saluta come la «mulier fons sapientie», «la madre nel cui seno già era celata la possibilità di un grande mondo» — versione ridotta, e tragicamente fallita, dell'ineffabile Aurea Materia.

Istruttiva e (fiche non guasta) gustosa, quale testimonianza diretta del contrasto fra l'etica cristiano-platonica e quella aristotelico-paolina in merito alla dignità femminile, può rivelarsi la famosa disputa epistolare fra la nostra eroina e la magistra Tenxwind di Andernach: apparentemente futile diatriba relativa allo sfarzoso abbigliamento che in certe occasioni era ammesso nel monastero della Nostra. Leggerla è come assistere in prima persona al dibattito di una grande dame platonica contro una radical-chic aristotelica, di una conservatrice aristocratica contro una moderna pauperista: la perennis philosophia elitaria ed arcaica opposta ad una sorta di tomismo per signorine che già sa di Università, di civiltà urbana e di Devotio Moderna. La risposta è esattamente quella che Temxwind si merita: Hildegard puntualizza che le è stata direttamente suggerita «dalla Luce Vivente». Ammette che la donna non dev'essere vanitosa, ma aggiunge significativamente che la donna sposata può, e deve, farsi bella — per piacere al proprio marito. La bellezza e la grazia femminile in sé, dunque, non sono come per i più tetri fra i Padri una tentazione diabolica tout court: santificate nel vincolo matrimoniale, sono strumenti di concordia e fecondità, e riflettono la beltà della natura creata. Ma c'è di più: «hoc non pertinet ad virginem» — le regole, per le vergini, sono diverse, e commisurate alla loro dignità indomata. La chioma sciolta, simbolo di vitalità, si addice mirabilmente alla donna vergine che, se e quando si vela, cela la propria beltà agli occhi umani solo per modestia, non per nascondere qualcosa di peccaminoso. Altrove, Hildegard dirà che la chioma virginea corrisponde alla Pioggia the umidifica la Terra: simboleggia l'umiltà e l'innocenza, ma anche le virtutes emanate dall'energia dell'animo. Un concetto che fa pensare al prodigioso mana proprio tanto alle chiome di Sansone (che infatti Hildegard menziona a questo proposito), quanto a quelle, altrettanto lunghe e sacre, dei nobili teutonici, dei Reges Criniti merovingi, e di quella particolare categoria celto-germanica di santi Re vergini e martiri, sovente vistosamente dotati di un tale attributo.

Tramite innumeri mediazioni, influenze dirette e indirette, filiazioni palesi o occulte, tutti questi enunciati attorno alla status mistico della Verginità vengono alla fin fine ad innestarsi su un ceppo incredibilmente arcaico e profondo, connesso al comune fondo mitopoietico indoeuropeo. Come ha dimostrato Georges Dumézil, il grande teorizzatore delle Tre Funzioni (Oratores, Bellatores, Laboratores) indoeuropee, in questo sistema lo stato di verginità — e di conseguenza l'essere umano vergine, uomo o donna che sia — è l'unico a godere del privilegio di essere trifunzionale, di partecipare con la sua possente versatilità tutte e tre le categorie: quella della 1. Sacralità Regale, quella della 2. Forza Guerriera nonché quella della 3. Fecondità.

Senza nemmeno accorgersene, imbevuta com'è di mentalità feudale, Hildegard ribadisce, potentemente e dettagliatamente, questa augusta polivalenza della Verginità :

1. la Virginitas hildegardiana, regale e sacra per vocazione, risiede «nel letto nuziale del Re», «solo a Lei si addice il matrimonio col Sommo Re»; «nello splendore della Verginità è celata una possente dote, cui s'inchina qualunque potestà terrena, qualunque vincolo della legge» e, ovviamente, la sua personificazione regge in mano «uno scettro regale»;

2. la Virginitas nell'opera di Hildegard si associa spessissimo all'immaginario e al lessico propri della Seconda Funzione: è parente stretta dell'illibatezza che nel Nibelungenlied rende Brynhild militarmente imbattibile. Le monache del Rupertsberg vengono apostrofate dalla loro badessa quali «filie mee, fortissimi milites», la badessa di Metz viene esortata per lettera a «cingersi di un balteo onde non piagnucolare per le ferite ricevute», e, come un probus miles a gettarsi impavidamente nelle fortissima bella, le aspre battaglie. Hazzecha di Krauftal viene salutata come un vecchio commilitone: «probi milites sumus», le scrive confidenzialmente Hildegard; a Sofia di Kitzingen, altra badessa, si rammenta come «la donna che si ponga entro il talamo del Sommo Re sarà armata d'armi possenti», e la si invita pertanto a «fissare dritto il sole come un'aquila». Non c'è da stupirsi che Hildegard fosse affascinata dalla storia di Sant'Orsola e dei suoi commandos cristiani in gonnella, cui dedicò molte composizioni.

D'altronde la tradizione cristiano-germanica pullula di Santi e Sante resi marzialmente invincibili dal loro stato verginale, e che eventualmente si sottomettono al martirio per libera scelta, non certo per dura necessità.

3. e infine la Virginitas, lungi dall'essere d'intralcio alla fertilità, è davvero — per usare un azzecato termine rubato di nuovo a Dumézil — un «serbatoio vivente di potenza e fecondità». Hildegard concorda perfettamente: «virginitas absque fecunditate non est», la donna vergine somiglia al «bel Paradiso, che non è giammai sterile». Il parto per antonomasia, quello di Maria, è verginale: e, come ricorderete, la vocazione essenziale della vergine Ecclesia è proprio quella di «concipere & parere».

Per tomare a Tenxwind, a alle sue critiche riguardo all'esclusione di donne plebee dalla sua comunità, Hildegard si esprime come un qualunque buon teorico degli Ordines sociali: «tutti quanti sono amati da Dio, e tuttavia le loro qualifiche non sono fra loro uguali. Minor ordo super superiorem non ascendat». La Santa, adusa a sfidare impavida Imperatori, Re e Arcivescovi per difendere il buon diritto e la verità, sentenzia che l'aspirare ad una condizione superiore a quella cui si è destinati è per antonomasia il peccato di Satana, colui che «voile volare più in alto di quel che gli era consentito». Aleggianti sullo sfondo, ideologie antichissime, e ormai disperatamente, nel Dodicesimo secolo, fuori moda: dalla teoria aristocratica della Repubblica platonica alla radici indoeuropee dell'ordinamento feudale, versione solo di poco più recente dei sistemi di caste vedici e celtici, del mito germanico della generazione divina delle classi sociali esposto nella Rigsthula. La loro rielaborazione ed integrazione all'interno di un'ottica cristiana non potrebbe essere enunciata più lapidariamente: ed è proprio qui che il platonismo hildegardiano s'incontra e si scontra con un' altra, ancestrale e primitiva componente della personalità di lei. Una componente talmente profonda e sotterranea che, a nostra conoscenza, sino ad oggi solo una, geniale, esegeta hildegardiana, Frances Beers, l'ha messa in luce ed analizzata esaurientemente (ma forse solo perché a nessun germanista è ancora venuto in mente di cimentarsi con l'immaginario di Hildegard).

Come Beers acutamente puntualizza, Hildegard emerge bambina, per entrare nel nuovo ambiente conventuale, da un habitat feudale che ha mantenuto un viscerale, forte vincolo con la tradizione e la morale teutonica post-Conversione. Chissà con quali e quante parti della travolgente epica cristiano-germanica è venuta a contatto, assorbendone atmosfere e lessico: da piccola, nella casa paterna, e — perché no — più tardi in convento (la passione per l'epica vernacolare era notoriamente un punto debole dei monaci nelle aree germaniche). E si tratta, ricordiamolo bene, di storie vigorose e scarne, immerse in quel particolare ethos eroico rimasto pressoché immutato sin dai tempi di Tacito: storie in cui nulla vieta a donne forti e volitive, impensabili in contesti cortesi o mediterranei, di misurarsi di persona, fisicamente, col Male.

Così come la Vergine Maria di Hildegard non è tanto la madre piangente ai piedi della Croce, quanto la Donna vestita di Sole, debellatrice del vecchio Drago, «scettro e diadema della dignità regale, cinta della sua fortezza come di un usbergo» (sempre la solita Sequenza), anche il suo Cristo ha qualcosa di peculiare. Non è certo la vittima inerme suscitatrice di intenso pathos, o l'amante divino cui le mistiche della Devotio Moderna indirizzano le loro effusioni: è l'haeleth, l'Eroe delle elegie anglosassoni che ascende superbamente alla Croce come se si trattasse di un trono, non spogliato a forza dai carnefici bensì dopo essersi da se «tolto il balteo», e una delle immagini alle quali Hildegard più ama paragonarlo è quella del Leone ruggente.

Per citare Frances Beers, «Hildegard è stata manifestamente influenzata da quest'amalgama di materiale cristiano e teutonico, che costituisce una parte preponderante della sua cultura... Con perfetta coerenza, vede se stessa nel ruolo di seguace, di guerriero che deve totali fedeltà e obbedienza al proprio signore, e al quale vengono in cambio assicurati fiducia, affetto e protezione... Hildegard è la più fedele dei vassalli, e non cerca gloria o ricompense per sé: si realizza totalmente nel servigio leale e nella gloria del proprio sire».

Dal momento che la profondità e la validità del vincolo affettivo e morale che lega il thegn (o se preferite il vassallo, il membro del comitatus, il comes palatinus) al proprio signore vengono messi alla prova e cementati innanzitutto e soprattutto nel corso di un conflitto, assistiamo al verificarsi di una paradossale conseguente incongruenza. Accade che Hildegard — in flagrante contrasto, una volta tanto, col platonismo cristiano — non concepisca affatto il Male come una sorte di morbosa inerzia, di Vuoto nichilistico, di non-Bene, privatio Boni. Ha piuttosto una colorita, e talvolta incoerente, visione della storia come un'epica lotta nella quale lei non che uno dei probi milites, dei fedeli seguaci del Re dell'Universo in guerra col vassallo ribelle, il traditore, Satana. E questa non è un'incombenza che, come abbiamo già appurato, alle donne sia preclusa: come Santa Giuliana (che nel poema anglosassone affronta il Maligno mettendolo al tappeto in un vero e proprio incontro di lotta libera), Hildegard non sembra particolarmente spaventata dal Demonio. Non ne sfuma il concetto come certi più miti platonisti cristiani, né se ne lascia intimorire. Proprio nel suo monastero ha occasione di curare un'idemoniata, certa Sigewize: non solo debella il Diavolo, ma lo strumentalizza per estorcergli informazioni, «permettendogli di parlare, ma solo a patto di rivelare delle verità». Non si fa fatica ad immaginarsi Hildegard impegnata nelle attività delle donne forti dell'epica cristiana germanica: picchiare Belial di santa ragione, decapitare con marziale esultanza Oloferne, veleggiare alla testa di un esercito alla volta di Gerusalemme come Sant'Elena: era nata all'interno di una tradizione che non trovava simili cose incompatibili coll'essere donna, ed era capace di approfittarne.

Ma si trattava, lo ripetiamo, della fine di un'era. Questo ideate attivo, vigoroso, di ardimento femminile sarebbe stato - era già stato - eclissato dall'emergere di una nuova forza, che avrebbe invaso tutta l'Europa: quell'Amor Cortese il cui erotismo, sublimato in ambito religioso, avrebbe sconvolto il rapporto delle autrici cristiane con Dio, introducendo nuove dolcezze, nuovi fremiti, nuove estasi. Vero è che gli abbandoni sponsali e sensuali del Cantico dei Cantici non sono estranei a Hildegard: non li rifiuta, ma li riserva per le sue figlie, le Spose del Re, per le quali scrive il testo inebbriante della Symphonia Virginum. Che Hildegard approvasse senza riserve il loro ruolo di amiche, spose, amate di Cristo, non c'è dubbio; ed era proprio per questo che le incoraggiava ad adornarsi come principesse suscitando le ire della devota moderna Tenxwind. Ma era un ruolo che lei non ebbe mai: lei, l'indomita madre-guerriera, lo scop ai piedi del trono del suo Re, il vassallo fedele fino alla morte.

Praticamente le stesse cose che Frances Beers dice ai suoi lettori, con parole diverse - ma talmente appassionate e accattivanti che non possiamo esimerci dal chiudere questa chiacchierata, fra donne e sulle donne, con un'ultima voce di donna, la sua: «E' difficile non esaltarsi al pensiero della coraggiosa sfida lanciata da Hildegard alla cupa misoginia delle consuetudini che la circondavano. La sua visione della propria comunità femminile era piena di fiducia, di fierezza, di gioia: erano una splendida compagnia, degna di onorare Dio in certi giorni speciali offrendo in dono la loro bellezza piuttosto che la loro penitenza. Non erano talmente fragili sul piano morale da non potersi permettere di ornarsi di belle vesti per esprimere il loro amore del Creatore, per timore che una cosa del genere potesse indurre in tentazione la loro personale vanità... La convinzione di Hildegard che le donne potessero esercitare il potere in un senso positivo deve aver fatto della sua comunità uno dei luoghi più affascinanti dove una donna votata alla religione avesse la possibilità di trascorrere la propria vita».

ELLA DE'MIRCOVICH



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