Sacri Sarcasmi / La Reverdie
Carmina Burana



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medieval.org

Arcana A353
agosto de 2008
Chiesa del convento francescano di Monte Mesma, Ameno










1. Bonum est confidere  [CB 27. Philippus Cancellarius]   [4:38]
1 3 4 6 7 8 - flauto, symphonia, percussioni

2. Adtende lector!   [LR]   [0:43]
voce recitante

3. Dic Christi Veritas  [CB 131. Philippus Cancellarius]   [2:44]
1 2 3 4 · versione monodica

4. Dic Christi Veritas  [CB 131. Philippus Cancellarius]   [6:21]
1 2 3 4 · versione polifonica

5. Heu nostris temporibus  [CB]   [1:37]
percussioni, voce recitante

6. Flete perhorrete  [CB 5]   [4:36]
1 2 3 4 6 7 8 - flauto, viella 3, cithara teutonica, percussioni

7. Ad cor tuum revertere  [CB 26. Philippus Cancellarius]    [5:57]
3 - viella 3, arpa

8. Curritur ad vocem   [CB 47a]   [2:17]
5 6

9. Omittamus studia  [CB 75]   [7:18]
1 2 3 4 5 - vielle 2-3, arpa cornetto muto

10. Carmen ante litteram  [brano strumentale, D. D. Sherwin]   [3:36]
salterio, liuto, flauto, vielle 3, arpa


11. Fas et nefas  [CB 19. Walther de Chatillon]   [2:53]
1 2 3 4 5 6 7 8 - liuto, vielle 2-3, arpa

12. Procurans odium  [CB 12]   [2:35]
1 3 4

13. Ave nobilis venerabilis  [CB 11*]   [3:27]
1 2 3 4 - campane, cornetto muto

14. La Quarte Estampie Royal   [2:17]
liuto, flauto, viella 3, arpa, percussioni


15. Tempus transit gelidum  [CB 153]   [4:49]
3 4 - salterio, campane, arpa

16. Olim sudor Herculis  [CB 63. Petrus di Blois]   [7:44]
1 2 3 4 5 - viella 3

17. Eunt ambe virgines   [1:52]
voce recitante

18. Frigus hinc est horridum  [CB 82]   [3:36]
1 2 3 4 5 6 7 8 - liuto, vielle 2-3, arpa, cithara teutonica, percussioni





LA REVERDIE

Claudia Caffagni, voce (1), liuto, salterio
Livia Caffagni, voce (2), flauti, viella (2)
Elisabetta de' Mircovich, voce (3), viella (3), symphonia, campane
Ella de' Mircovitch, voce (4), arpa, cithara teutonica
Doron David Sherwin, voce (5), cornetto muto, percussioni
Andrea Favari, voce (6), voce recitante
Paolo Borgonovo, voce (7)
Matteo Zenatti, voce (8)



English liner notes



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Sacri Sarcasmi
I paradossi dei Carmina Burana

Ut aliquantulum huius cantus ludum secolarium vocum deleret.
(Che si sfrondi almeno un po' dagli echi mondani questo genere di canto.)
Otfried von Weisenburg
Sentit tela Veneris, et Amoris ictus: non est tamen Clericus mater et afflictus!
(Sperimenta su di sé i dardi di Venere, le frecciate d'Amore: il chierico non è necessariamente un macilento e cupo asceta!)
Carmina Burana, «De Phyllide & Flora»


È probabile che, per il melomane medio, i Carmina Burana rappresentino il più noto esempio di 'musica medievale'. Potremmo spingerci a dire che i Carmina siano in sé l'unico repertorio medievale, l'unico esemplare decentemente etichettato, frammezzo a una fantomatica congerie di melodie anonime e vaghe; e di ciò, senz'ombra di dubbio, è anche e forse soprattutto a Carl Orff che dobbiamo essere grati (magari scusandoci in anticipo con coloro che hanno incautamente acquistato il nostro CD pregustando già una nuova trascinante versione del grandioso affresco corale).

Eppure, in un certo senso, il favore che Orff ha inconsapevolmente fatto aquesta stupefacente antologia medievale la ha anche al tempo stesso raggelata entro il primo e principale paradosso che tuttora la imprigiona - e che è, grossomodo, il seguente: il melomane medio di cui sopra ha una chiara idea che le chanson dei trovatori erano leggiadramente gorgheggiate da distinti cantautori e i responsori gregoriani austeramente tonitruati da severi monaci. E i Carmina? Ovviamente berciati fra rutti e lazzi da quella non ben delimitabile categoria sociale che erano i 'goliardi'!

(Non che nel campo degli i odierni ripropositori della musica medievale si sia fatto granché per correggere quest'ultimo bislacco concetto.)

In realtà, la moderna musicologia non è affatto complice della gaia equazione Carmina ='rutti in taverna'. Da decenni si è andati studiando e comparando il Codex Buranus con tutta una serie di suoi magnifici e internazionali paralleli: la tipologia del manoscritto ecclesiastico di altissima qualità e dal contenuto fantasmagoricamente eclettico è in realtà molto diffusa.

Dal celebre Codex Pluteus 29.1, parigino, ai Carmina Cantabrigensia (malgrado il nome, il più antico dei due manoscritti fu compilato sì a Canterbury ma è in realtà una copia di originale renano), alla fondamentale raccolta scozzese ora a Wolfenbüttel, fino alle miscellanee inglesi appartenute agli abati di Reading e ai vescovi di Bath (Harley 978 e Beckyngton Miscellany) e a decine d'altri: l'Europa pullula di raccolte in cui parecchi degli stessi brani presenti nel Codex Buranus fanno ostinatamente capolino. Brani, profani e sacri e un pó di tutt'e due, che spaziano entro un arco di quasi due secoli, veri e propri evergreen, fra gli autori dei quali si ripresentano di continuo gli stessi nomi di intellettuali a cavallo fra mondo ecclesiastico e mondo politico: Philippus Cancellarius, Petrus di Blois, Walter di Chatillon.

Ed ecco qui un altro dei paradossi del Codex Buranus: appunto quello che esso, avulso da tutta questa brigata di compari internazionali, che in un certo senso ce lo rendono più misterioso, misterioso musicalmente per noi lo rimarrebbe del tutto. Come infatti spiegheremo meglio nelle sezioni successive, gli sparuti e inutilizzabili suggerimenti melodici del Buranus ci sono intelleggibili e riproducibili sonoramente solo grazie alle decine di paralleli che le sue canzoni trovano nel più vasto e ben notato gruppo di manoscritti ad esso affini. Da solo, non incluso cioè nel più vasto panorama di un'epoca e di un gusto ben precisi, il nostro codice rimarrebbe bellissimo - e irrimediabilmente privo di musica. Sembra quasi un tacito invito a porsi sempre nuove domande sulla complessità e l'inconcepibile permeabilità delle aree culturali medievali.

Discutendo delle caratteristiche tecniche e concettuali di tale gruppo di raffinatissimi, e al tempo stesso disinibiti florilegi, John Stevens commenta (sta riferendosi ai Carmina Cantabrigensia, ma il tutto si potrebbe applicare parola per parola ai Burana): «[...] la presenza di più di una mano nello spazio di poche pagine fa propendere per l'idea di un'intera comunità all'opera, una comunità di chierici, forse gli insegnanti o gli allievi di una scuola vescovile o abbaziale [...]. La farcitura di un repertorio basilarmente sacro con molti canti profani alquanto vivaci seppur mai scurrili conferma tale opinione».

E allora dove (e dal dove, il come non dista mai troppo) si cantavano questi «canti alquanto vivaci seppur mai scurrili»? Zeppi di piccanti citazioni classiche ma anche di invettive morali da riformatori 'protolollardi' o 'protopatarini'? Dove si sono gustati davvero i Carmina Burana? Alquanto probabilmente non (e certamente non solo) in malfamati bar studenteschi delle civitates universitarie. È chiaro che vengono in mente le schole capitolari adombrate da Stevens, quelle curie prelatizie, quei circoli letterari di presuli artisticamente illuminati fra i quali certamente si annoverava l'ecclesiastico dai gusti cosmopoliti che commissionò il Codex Buranus.

I Carmina evidentemente, soprattutto quelli che noi giudicheremmo un tantino osé o comunque 'sovversivi', erano destinati, come teorizza Bruno Stàblein, «alle riunioni extra-liturgiche dell'alto clero [...] per esempio onde allietare i pasti o altre occasioni sociali. Abbiamo a che fare qui con una sorta di klerikale Unterhaltungskunst ('arte d'intrattenimento clericale') assolutamente affine all'arte secolare e cortese del repertorio cavalleresco».

E tanto per affrontare l'argomento paraliturgico o liturgico davvero, aggiunge il curatore della fondamentale edizione del 1970, Bernhardt Bischoff: «le lunghe, pressoché ininterrotte serie di canti d'amore, di primavera, di danza, ai quali spesso erano aggiunte strofe in tedesco, venivano cantate nei irotondi dei chierici», quei girotondi che pur bizzarri pera nostra odierna sensibilità vantavano un termine liturgico perfettamente ortodosso, i Quatuor Tripudia (alla Natività e a Santo Stefano si scatenavano i diaconi, a San Giovanni i preti ordinati, ai Santi Innocenti i pueri cantores, all'Epifania i suddiaconi).

Queste danze sacre a Onorio d'Autun, un centinaio d'anni prima del Codex Buranus, piacevano molto. Si delizia a descriverne i profondi significati simbolici e cosmologici: il girare in tondo rappresenta il ruotare del firmamento, il tenersi per mano l'interconnessione degli elementi, la melodia cantata la musica delle sfere, il pestare ritmico dei piedi il rombo dei tuoni. Non molto tempo dopo, però, cominciamo a trovare lamentele, anche autorevolissime (il concilio di Avignone del 1209, ad esempio), secondo le quali queste pratiche musicali 'estreme' nelle chiese, cui si abbandonavano monaci, preti e persino monache, avevano evidentemente passato il segno'. Il che significa fra l'altro che dovevano anche essere alquanto diffuse e tradire una necessità sentita autenticamente.

Non per nulla il nostro personale omaggio al Codex Buranus si apre col manifesto ideologico di un altro codice, l'irlandese Libro Rosso di Ossory. Qui l'episcopale committente dichiara di aver voluto raccogliere un repertorio «per le festività e per i momenti di svago» (leggi, rapportandolo ai Carmina, canzoni d'amore classicheggiante e piacevoli o comunque intriganti motivetti clericali e morali), affinché coloro che sono «istruiti nell'arte del canto» (e qui, sinceramente, piuttosto che goliardi avremmo in mente quei diaconi, suddiaconi, preti epueri cantores che da due secoli tanta voglia avevano di divertirsi un po') trovino pane per i loro denti e non «si contaminino con la pratica di canzonacce profane, oscene e grossolane».

Intrattenimenti clericali, dunque? Sacri sarcasmi? Pare non possa essere altrimenti. Passatempi sì, sacri o virtuosamente profani, e spesso venati di una pensosa intransigente ironia, proprio quella che in modo commovente viene richiamata da alcuni versi dei Carmina stessi: «O Dialettica, non ti avessi mai conosciuta! Sei tu che fai di ogni chierico un esule, un infelice». È il terzo e forse più profondo e toccante paradosso dei Carmina, specchio impassibile e multiforme della condizione umana, culturale ed emotiva di tutto uno strato della società medievale: il chierico «esule e infelice», intellettuale stranito dalla sua stessa sapienza, sradicato da affetti e patria; ma lì di fronte, semplice riflesso e complesso alter ego, il chierico che non è affatto «un macilento e cupo asceta», bensì «sa amare una fanciulla assai meglio di un guerriero».

Eccoli, i Carmina Burana: confessione, compianto, sberleffo e suprema autocelebrazione dell'ordo degli oratores, una peripezia intellettuale che, nel CD come nel manoscritto, spazia dal più nero pessimismo moralistico a una raffinata ammiccante gioia di vivere, messi assieme da un clero capace di reggere ben saldo quello specchio di cui dicemmo, di fronte alla propria corruzione morale, alla propria dotta decadenza, al proprio smarrimento sensuale.

È esattamente in questo spirito che La Reverdie ha voluto far loro onore: almeno un tantino «sfrondandoli dagli echi mondani» (come già delle canzoni della sua epoca auspicava il carolingio Otfried von Weissenburg), ma non perdendo mai di vista il fatto che, talvolta ben nascosta, talvolta in sfacciata ostensione, di hot stuff ce n'è un bel po'. LaReverdie ha vagheggiato l'estetica di un coro di diaconi e pueri, ma tenendo sempre ben presente che la 'roba che scotta', a costoro talvolta offerta dai codici, era stata scritta da altri chierici. Chierici che per un periodo della loro vita potevano benissimo essere stati vagantes, ribelli e lussuriosi; ma che già incarnavano, magari senza saperlo, l'intelligentsia futura della loro epoca. Quei medesimi chierici che scrissero, e presumibilmente eseguirono, il Codex Buranus (e i molti suoi omologhi), nelle università e nelle scholae di tutta Europa avevano frequentato le lezioni dei più grandi maestri di letteratura classica, teologia, filosofia ed estetica: nani d'indole musicale appollaiati sulle spalle dei giganti del pensiero medievale.

Come non di rado accade, il melomane medio ha perfettamente ragione: i Carmina Burana, in fondo in fondo, sono il Medioevo.

Ella deMircovich


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Il Codex Buranus: provenienza, datazione e ricostruzione melodica

Il nostro Codice venne verosimilmente copiato nella terza decade del XIII secolo; in epoca successiva (fra la fine del Duecento e i primi del Trecento), negli spazi rimasti liberi e nelle ultime pagine vennero inseriti altri componimenti, noti come Fragmenta Burana.

I Carmina sono raggruppati scientemente per argomento, anche se in modo relativamente ondivago, talvolta con sorta di titolo o avvertimento (caratteristica questa che non troviamo nel gruppo di manoscritti omologhi di cui già parlammo). Si comincia con temi moraleggianti e religiosi, si trapassa a canti di crociata, soggetti amorosi (Iubili), filosofici, satirici, scacchistici, ornitologici (ci sono due lunghissime composizioni con mirabolanti liste aviarie); troviamo parodie liturgiche, frammenti ovidiani, 'miniludi' profani con protagonisti di discutibile moralità (sofisti meretrici dai nomi classicheggianti o floreali), veri e propri lunghissimi drammi sacri.

Il codice, sepolto sotto pile di altri tomi, si conservò nell'abbazia di Benediktbeuern fino al 1806, anno in cui, riportato alla luce, venne trasferito nella Biblioteca Nazionale di Monaco di Baviera, con la segnatura Codex Latinus Monacensis (Clm) 4660.

Riguardo la sua provenienza coesistono svariate ipotesi: Baviera, Carinzia, Stiria, Tirolo. Gli studi più recenti, basandosi su alcuni elementi linguistici delle strofe in medioalto tedesco, oltre che su particolarità iconografiche delle miniature, hanno suggerito un'origine nell'area di Brixen/Bressanone. Forse si tratta proprio dell'abbazia di Neustift/Novacella, fondamentale snodo nel traffico di pellegrini da tutta Europa, e centro culturale di enorme importanza già dal XII secolo.

Il successivo trasferimento del codice a Benediktbeuern in Baviera può essere stato facilitato dai frequenti contatti fra la confraternita bavarese e quella sudtirolese (si rammenti che Benediktbeuern era soggetta al vescovado di Brixen), oltre che dai rapporti commerciali che l'abbazia intratteneva con Bolzano, nel cui territorio possedeva ampi vigneti.

Fin dalla sua ricomparsa il manoscritto stuzzicò subito l'interesse degli studiosi: nel 1847 Andreas Schmeller redasse la prima edizione integrale dei Carmina Burana (così egli stesso intitolò la silloge), sulla quale si basò Carl Orff per la sua celeberrima rielaborazione.

Diverse altre edizioni e traduzioni comparvero prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, ma l'intera antologia (Carmina e Fragmenta Burana) fu completata solo nel 1970 da Bernhardt Bischoff.

· · ·


Il Codex Buranus (come del resto molti dei suoi cosmopoliti omologhi cui accennammo) è essenzialmente un manoscritto poetico. Solo 55 dei 315 componimenti presentano una parziale o totale notazione in neumi germanici in campo aperto, senza indicazione né di intervalli melodici né di ritmo, rendendoci oggi quindi estremamente ardua la ricostruzione musicale.

Si deve quindi procedere con estrema cautela: l'unico approccio consta nell'analizzare attentamente fonti monodiche e polifoniche parallele che ci offrano lo stesso testo del Codex Buranus corredato però da una versione musicale completa e più inequivocabilmente leggibile.

Un'altra, più azzardata strada (in mancanza di fonti parallele) coincide con la tecnica tipicamente medievale del contrafactum in cui a un determinato testo si applica una melodia preesistente o coeva, originalmente utilizzata per un testo diverso.

Nel nostro caso, in presenza di testi particolarmente stimolanti (track 6,9,15,18) ma ahimè orfani di fonti musicali, abbiamo proceduto al loro approfondito esame letterario e metrico: abbiamo quindi cercato, e trovato, per loro nel vasto repertorio medievale melodie che stessero loro addosso a pennello metricamente e formalmente (restringendo ovviamente la ricerca ad ambiti ragionevoli tanto cronologicamente quanto geograficamente). I prestiti provengono tutti o dal repertorio notato dei Minnesänger (autori peraltro di molte strofe presenti nel Codex Buranus), o comunque da quel succitato gruppo di manoscritti omologhi ricchi di ulteriori fonti parallele.

Un ultimo percorso praticabile in taluni casi consiste nel tentare una ricostruzione melodica a partire direttamente dalla notazione neumatica di tanto in tanto presente nel manoscritto: è esattamente ciò che ha prodotto la track 3, alle note relative alla quale rimandiamo il paziente lettore.

La Reverdie


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