Ritus Orphæos  /  Simone Sorini


Il Cantore al Liuto nella storia, dal Medioevo all'Epoca d'Oro















PREMESSA – L'ESECUZIONE VOCALE E STRUMENTALE

La pubblicazione di questo CD corrisponde ad un mio desiderio di offrire una raccolta dei brani più belli e significativi che ho interpretato e che più mi hanno segnato in oltre venti anni di attività in giro per il mondo, selezionati tra quelli a mio parere più rappresentativi di come si sia sviluppata la particolare figura del "Cantore al Liuto", dal medioevo sino alla sua età d'oro, il XVI secolo.

Accompagnare il proprio canto con uno strumento a corde rende di fatto possibile il recupero di una performance vocale intima e vibrante, comunque lontana da quegli stilemi consolidati, tramandati ormai da generazioni di interpreti, che tendono ad omologare qualsivoglia repertorio. Per altri aspetti favorisce lo sviluppo organico sia del respiro ritmico che del naturale crescendo emotivo, peculiare di ogni singolo brano.

La mia interpretazione vocale è suggerita in tutti i casi dalle melodie stesse, ma e generalmente improntata alla massima dolcezza del suono — il requisito considerato più indispensabile da e per gli interpreti del passato — oltre alla intelligibilità del testo letterario.

In quasi ogni brano ho aggiunto alcune mie personali variazioni improvvisative alle melodie stesse, un atteggiamento nei confronti dell'interpretazione della pagina antica che considero oramai irrinunciabile e del tutto verosimile; ciò accade con maggiore evidenza nelle tracce n. 1, 2, 13, 15 e 16.

Ho voluto inoltre differenziare la musica trecentesca da quella più tarda in base ad una particolare attenzione all'estetica generale dei diversi momenti storici, un 'indagine che mi induce a rileggere i brani medievali in maniera sobria — certamente ricca di bellezza, profondità e sacralità ma priva di atteggiamenti affettati — per cercare di trasmettere la stessa essenzialità che si ritrova nelle pitture, negli edifici sacri, nella poesia e nella letteratura del '300: una sorta di controparte musicale contemporanea delle opere di Giotto, Gentile, Martini, Dante, Petrarca e Boccaccio, tanto per citare i più noti.

Per i brani compresi nella sezione "Epoca d'Oro" mi sono avvalso delle varie testimonianze relative alle esecuzioni di "cantori e donne al liuto" soprattutto di ambiente roveresco (come Serafino Aquilano e Virginia Vagnoli), nonchè del trattato "Prattica di musica" vol. 2 di Lodovico Zacconi.

Riguardo l'esecuzione strumentale ho considerata avulsa da questo progetto ogni tipo di ridondanza virtuosistica: per il cantore al liuto lo strumento è un supporto della voce, mai ed in nessun caso prevale su di essa.

Per ipotizzare e differenziare diverse modalità di accompagnamento, le riduzioni strumentali di alcuni brani del Rinascimento sono prevalentemente accordali ed incentrate sul movimento melodico dei bassi, così come io credo si facesse talvolta; solo alcuni passaggi polifonici sono riprodotti come in partitura (tracce 10, 13 e 15), in altri casi tutte le parti sono suonate in polifonia come da intavolatura (tracce 8, 9, 11, 12 e 16).

Per quanto riguarda gli strumenti, ne ho suonati otto diversi, tutti strettamente inerenti alla musica con ciascuno eseguita, allo scopo di differenziare ed arricchire il suono complessivo del disco: nella parte "Il Medioevo" si possono ascoltare la guitarra morisca (traccia 2), la guinterna (3, 4, 7), la citola (6), il grande liuto non tastato (i), il piccolo liuto tastato a 4 cori (5) ed il liuto a 5 cori (8). Nella sezione "L'epoca d'Oro": il liuto a 11 corde rinascimentale (tracce 10, 11, 12, 13, 15, 16), la cetra rinascimentale (14) ed il liuto a 5 cori (9).

Simone Sorini






DALLE ORIGINI ALL'EPOCA D'ORO DEL CANTORE AL LIUTO

Sin dall'antica Grecia la musica fu l'inseparabile compagna della poesia, ed in particolare furono gli strumenti a corde, pizzicate o sfregate con un archetto, ad accompagnare dalla remota antichità il canto epico, trovadorico e goliardico.

Le tragedie erano recitate cantando (una pratica che fu riscoperta all'inizio del XVII secolo con gli esiti ben noti per la nascita del teatro dell'Opera), e non vi fu poeta che non fosse anche musico.

La poesia e l'aneddotica di carattere epico-solenne e religioso erano appunto tramandate attraverso la musica, come anche la semplice trasmissione di notizie da un luogo all'altro. E' per questo che uno strumento come la lyra divenne un simbolo dei poeti e della loro arte: personaggi mitologici come Jubal, Orfeo, Apollo, sono sempre rappresentati con questo strumento od un suo derivato, uno strumento, appunto, che con il tempo assumerà forme diverse, trasformandosi quindi di secolo in secolo in quello più in voga al momento — ma sempre ed immancabilmente a corde, ed, in molti casi, a corde pizzicate.

E' proprio a causa della mitizzazione sia del personaggio che lo recava, sia dello strumento stesso — che si diceva avesse il potere di ammansire le fiere o di smuovere le montagne — che i poeti umanisti del Rinascimento, in un evidente desiderio di identificazione, cominciarono ad imbracciare i suddetti cordofoni, spesso facendo passare liuti o chitarre per la mitica lyra: cantore al liuto definisce infatti colui che canta accompagnandosi con uno strumento a corde in senso generico, quindi non necessariamente un liuto.

Com'è noto i popoli mediterranei preferirono sempre il suono delle corde pizzicate a quello delle corde sfregate con l'arco, e ciò motiva l'assoluta predominanza dei liuti e degli appartenenti a tale famiglia — ben prima che l'archetto fosse in uso — nei paesi del sud Europa, come Spagna e Italia.


Il liuto ed "i liuti"

Ancora oggi ogni costruttore o riparatore di qualsiasi tipo di strumento musicale è definito liutaio: ciò basterebbe a chiarire quale fu l'importanza del liuto nei secoli, uno strumento dal carattere individuale, poco utilizzato in ensemble o consort di genere, e forse per questo eletto dai solisti come supporto insostituibile per l'accompagnamento della loro voce. Il cantante poeta trovava nel liuto un appoggio ritmico, solido e vibrante all'occorrenza, che mai andava a sovrapporsi alla voce stessa esaltandone invece le caratteristiche timbriche, e che sapeva anche essere dolce, ricco di mille sfumature. Fu lo strumento dei Principi e dei Re, ma anche il fedele compagno di viaggio di trovatori, poeti girovaghi, giullari e saltimbanchi, che lo portarono con sé custodendolo gelosamente pur nelle mille avventure dei musici di strada.

La storia del liuto inizia nell'antico Egitto, dove era molto usato — come ci dimostrano le varie iconografie — già nel periodo predinastico: ne è testimonianza anche l'esistenza di uno specifico geroglifico detto "nefer", molto rappresentato nelle iscrizioni, che raffigura l'immagine del liuto esprimendone il significato.

Verosimilmente, almeno a giudicare dalle immagini che sono giunte fino a noi, si trattava all'epoca di uno strumento suonato prevalentemente da sacerdotesse, quindi femminile e cerimoniale.

Il liuto egizio venne acquisito dagli arabi e dai persiani che ne modificarono la forma: divenne più grande, e furono aggiunte sempre più corde sino a raggiungere le sembianze che possiamo ancora oggi riconoscere nell'oud. Solo molto più tardi, in seguito alle invasioni ed al succedersi delle varie dinastie di califfati nella Spagna meridionale, lo strumento prese piede anche in Europa, dove persistette nei secoli, dando anche qui origine a numerose varianti sia per quanto riguarda la morfologia che i materiali usati per la costruzione.

La prima testimonianza italiana di un liuto piriforme piuttosto grande e simile all'oud arabo si trova in Sicilia, nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo, edificata nel 1140: le immagini che tramandano musici e danzatori sono da considerarsi tra le prime testimonianze artistiche del passaggio della cultura araba in Italia.

Alcune tra le più dettagliate iconografie europee dei liuti si trovano inoltre nelle miniature delle Cantigas de Santa Maria nel codice El Escorial, dove compaiono svariati strumenti a corde come la guitarra morisca o saracenica e la guitarra latina, termini che potrebbero entrambi designare particolari forme assunte dal liuto nel medioevo spagnolo (entrambi menzionati in un trattato di Johannes de Grocheio) e che comunemente oggi si assegnano ai due strumenti a manico lungo e dalla cassa piccola e stondata, o leggermente oblunga e sagomata sui fianchi, visibili appunto in alcune miniature del manoscritto.

Per capire l'evoluzione del liuto dal medioevo cristiano sino al 1500 — il secolo del suo massimo splendore — è necessario considerare alcuni dettagli: il primo è la tastatura del manico; il secondo è l'utilizzo, e le varianti, del plettro.

La presenza o meno di tasti consente di risalire all'uso che si faceva dello strumento: l'assenza di essi denota un utilizzo prettamente melodico e ritmico del liuto, ma esclude decisamente quasi ogni tipo di uso accordale od armonico in senso lato. L'aggiunta dei tasti — mobili nella maggior parte dei casi — alla tastiera, coincise con la diffusione di brani di repertorio dedicati verosimilmente ad un'esecuzione strumentale potenzialmente solistica; in seguito, il perfezionamento e l'uso della tastatura portò anche alla nascita delle prime intavolature per lo strumento.

Per quanto riguarda il plettro, vi sono due tecniche del plettro: una più antica, di polso, con plettro largo e lungo, ed una più "moderna", con plettro più sottile e tenuto tra due dita; proprio quest'ultima è l'origine evidente della cosiddetta tecnica "delle dita pollice e indice" che si sviluppa dalla fine del '400 in poi. La tecnica del plettro largo (o "di polso") è viva in occidente fino al XIV secolo, ed è rappresentativa di uno stile liutistico d'impronta melodica, esattamente come nella musica araba.

Alla tecnica del plettro sottile seguirà poi in breve tempo ed in modo naturale la tecnica delle dita, che sostituirà del tutto l'utilizzo di tale accessorio.

Va detto però che in alcune raffigurazioni la posizione della mano destra induce a credere che vi sia stato un momento di passaggio, ovvero una "tecnica mista" in cui il plettro veniva usato, senza tuttavia escludere l'ausilio delle dita, per ottenere effetti di improvvisazione accompagnata, o repentini cambi di tono e di tocco, dall'arpeggio allo "sfregato" accordale. Una tecnica che sopravvisse forse per pochi anni a cavallo dei secoli XV e XVI, e che oggi alcuni virtuosi tendono a riconsiderare non solo plausibile, ma addirittura imprescindibile.


Il liuto a Napoli nel 1500

Il liuto fu dai trattatisti — soprattutto napoletani come, per citarne solo alcuni, Scipione Cerreto e Luigi Dentice — definito, tra tutti, "lo strumento più completo e perfetto".

La sua potenzialità ritmica, unita alla dolcezza del suono delle corde sfiorate dalle dita, lo rendeva adatto ad interpretare con successo qualunque tipo di repertorio nella musica di tutto il Rinascimento, da quelli popolari di natura coreutica fino a quelli elevati e colti, quando non addirittura sacri.

Scrive Scipione Cerreto nel 1608:

"Ed essendo lo stromento del Leuto più perfetto d'alcun 'altro stromento ritmico, hò voluto prima cominciare a trattar di esso, anzi che per la perfettione che si trova in detto stromento l'è commune opinione di haverli dato il nome regio chiamandolo Re delli stromenti ritmici, la qual cosa non si dice dell 'altri stromenti di corde di nervo, come sono Teorbe, Arpe, Bordelletti, & Chitarre alla Spagnola, & è talmente perfetto il Leuto che pòdendo il sonator di quello ha suo bell'aggio bassare e alzare i tuoni, & semituoni delle voci, potrei farlo facilmente, mediante la cosa del tastare, trahendo da una sola corda tre, quattro, e cinque voci, per il che potiamo dire, che per le ragioni portate di sopra gli Suonatori del Leuto sono stati posti nel settimo grado dell 'Arbore".

Da questo passaggio è semplice dedurre quale fosse l'importanza dello strumento nella Napoli di fine secolo; va inoltre tenuto sempre in conto che quando un trattatista riporta un'informazione in riferimento all'utilizzo od alla pratica esecutiva di uno strumento, ciò implica che questi fossero ben consolidati nell'uso comune già da molti anni prima.

Le parole di Cerreto ci aprono inoltre il campo su un altro interessante aspetto che riguarda più da vicino la prassi esecutiva dello strumento: egli infatti presenta il liuto come "il Re degli strumenti musicali ritmici" — non già di quelli delicati, melodici o armoniosi come si sarebbe potuto ipotizzare.

Il fatto che egli classifichi il liuto come il migliore in assoluto tra gli strumenti ritmici a corde deve farci riflettere su quale fosse il suo reale impiego e quale, tra i numerosi possibili che ancora oggi si dimostra idoneo a produrre, il suono privilegiato in quell'area e in quell'epoca.

Il Cerreto ci informa ovviamente anche della dolcezza del suono del liuto e della sua versatilità, ma prediligendo sempre con fermezza il suo aspetto ritmico.

Un altro dettaglio che induce a pensare che il liuto, quantomeno nella Napoli di fine '500, venisse suonato prevalentemente per accompagnare ritmicamente e con modalità più che altro accordale il canto, sono alcuni passaggi presenti nel testo di alcune villanelle e moresche.

Non credo di esagerare affermando che la storia di questo strumento, di per sé abbondantemente sviscerata, è ancora in buona parte da riscrivere per quanto riguarda molti aspetti di prassi esecutiva quantomeno nei repertori napoletani, o comunque meridionali nell'Italia del tardo Rinascimento.


Le origini della poesia per il canto

La stessa terminologia della costruzione poetica induce a pensare che una forte affinità o quantomeno una radice comune con la musica sia stata sempre presente nella mente e nel momento creativo dei poeti — forse non a caso i capitoli della Divina Commedia si definiscono "canti", ed il ritmo stesso prodotto dalle rime è un ritmo musicale. E d'altra parte, Petrarca non ha composto un "Canzoniere"?

Molti termini di forme poetiche in effetti corrispondono esattamente a quelli di forme musicali come, solo per citarne alcune: ballata, cantare (poema narrativo popolare di tema eroico-cavalleresco o leggendario, diffuso in tutto il medioevo) canzona, canzonetta, frottola, inno, lauda, madrigale, mottetto, pastorella, ritornello, romanza, rondeau, sequenza, stornello, strambotto, villanella, sonetto.

Ognuno di questi termini definisce un genere letterario-poetico ed un relativo componimento musicale, e questi esempi sono soltanto quelli più immediatamente riconoscibili per l'assonanza che il termine stesso evoca tra musica e poesia; ma ci sono molte altre corrispondenze tra le due discipline che fanno riferimento ad una loro comune matrice, come la disciplina retorica.


Dante Alighieri

La possibilità che la Divina Commedia fosse originariamente stata pensata per essere anche un poema cantato in rima, tramandato dai giullari come le saghe epiche degli eroi dell'antichità portate sulle piazze dai cantastorie, non può essere esclusa.

Sappiamo con certezza che Dante Alighieri fu musicista e cantore oltre che rimatore; egli stesso fu con tutta probabilità uno di quegli antichi cantori al liuto la cui esperienza si basava sulla allora diffusissima figura del trovatore, il poeta cantore che si accompagnava con il liuto o la viella, e che ebbe la sua prima origine in Provenza, nel sud della Francia.

Dante fu fervente ammiratore, e in molti casi amico, di alcuni di quei celebri trovatori che ebbero fortuna anche in Italia.

Nel Trattatello in laude di Dante, il Boccaccio scrive al capitolo XX:

"Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire".

Dante si cimentò più volte in fatti ed annotazioni concernenti la musica, e in special modo proprio il liuto, le sue fattezze e i suoi protagonisti — tanto da far pensare che una tale conoscenza fosse frutto di una frequentazione oggettiva con lo strumento — sia nella Divina Commedia, sia in un brano del Convivio, dove paragona ad un nappo (un grande cucchiaio) lo strumento che veniva allora definito "chitarra italiana", un liuto di piccole dimensioni che diventerà poi il mandolino o mandola, una metafora dalla quale dobbiamo dedurre che quest'ultimo era sicuramente scavato in un unico pezzo di legno, e non con il guscio formato da doghe incollate fra loro.
Sempre nella Divina Commedia così descrive Adamo da Brescia, il falso monetario punito d'idropisia nel XXX Canto dell'inferno:

Io vidi un, fatto a guisa di liuto,
Pur ch 'egli avesse avuto l 'anguinaia
Tronca dal lato che l'uomo ha forcuto.


Trovatori e giullari, i musici della Divina Commedia

Nel celebre poema sono effigiati alcuni tra i più noti musici del tempo, come ad esempio Arnaut Daniel, italianizzato in Arnaldo Daniello o Daniele. In vita fu originario di Riberac nella Dordogna (una regione dell'Aquitania); Dante lo incontra invece tra i morti, nel Canto XXVI del Purgatorio, dove arde tra le fiamme dei lussuriosi, ed è indicato come il miglior poeta che mai abbia scritto in versi volgari.

Tanto ammirò Dante il suono dei versi e della musica di Arnaut che lo fece parlare proprio nella sua lingua e con le forme poetico-musicali che gli furono proprie: quelle "rime petrose" aspre e dure, e talvolta con il "trobar clus", il parlare o poetare celato, il verso dal senso doppio.

Ho scritto "parlare", ma con ogni probabilità il trovatore Daniel sembra piuttosto intento a cantare i suoi versi, anche perché il suo intervento inizia proprio come l' incipit di una delle più famose canzoni trovadoriche — "Tant m 'abellis I 'amoros pessament" — composta da Folquet de Marselha.

Bertran de Born è il secondo dei trovatori che il poeta incontra nel suo cammino: signore di Hautford nella Guascogna, fu dedito alla poesia cantata ed alla guerra, occupazioni apparentemente inconciliabili ma che egli invece seppe amministrare, componendo decine di Sirventes, Coblaz, Cansons e alcune Canzoni di Crociata.

Nei suoi testi si legge spesso un'esaltazione della guerra e dello scontro fisico che Bertran, cavaliere e militare in vita, praticò e amò; ma nel Canto XXVIII dell'Inferno, nel cerchio VIII — quello dei seminatori di discordia — Dante lo presenta in una delle più macabre figurazioni infernali: egli cammina e parla reggendo tra le mani la propria testa mozzata.

Tra gli italiani troviamo Sordello da Goito, che pur essendo originario del territorio di Mantova prestò i suoi servigi anche in Provenza oltre che in varie corti italiane e centro italiane; collocato da Dante nel Purgatorio, nella sezione più "politica" del suo poema, Sordello rimane al fianco di Dante e Virgilio dal Canto VI all' VIII, fungendo quasi da guida supplementare e meritandosi così un notevole rilievo e la meritata fama. Di lui ci restano circa 42 componimenti.

Ed ancora, Casella, musico e cantore al liuto nato intorno al 1250 a Firenze (o Pistoia) e morto forse nella primavera del 1300, secondo quanto lo stesso Dante dice di lui nel Canto II del Purgatorio in cui compare. Gli antichi commentatori del poema lo descrivono come un musico molto apprezzato e grande amico di Dante, anche se non si sa quanto tali notizie dipendano dalla lettura del poema stesso; nel Codice Vaticano 3214 si trova il suo nome in calce a un madrigale di Lemmo da Pistoia, poeta del '200, che recita: "Casella sonum dedit" (ovvero "lo musicò Casella", il che è coerente con l'episodio narrato da Dante).

Il sommo poeta, incontrandolo, lo prega di eseguire un canto per confortarlo della fatica del viaggio, cosi il musico intona la canzone "Amor che ne la mente mi ragiona" dello stesso Dante, commentata nel III Trattato del Convivio. Leggenda vuole che Casella fu il maestro di musica del grande poeta fiorentino.


Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio

Ma veniamo al Petrarca, che come si sa fu egli stesso un cantore al liuto, uno dei primi di cui si abbia notizia certa. Il cronista e biografo fiorentino Filippo Villani scrisse di lui che suonò la lyra in modo ammirabile, e che la sua voce fu "sonora, piena di fascino e dolcezza".

Una delle ragioni per cui Petrarca dovette sentire la necessità di suonare il liuto fu appunto quella pratica del cantare versi con l'accompagnamento di uno strumento per renderli più musicali: il poeta infatti annotò, nella copia di lavoro di uno dei suoi sonetti, che avrebbe dovuto aggiustare e perfezionare la rima di ancora due versi, e che lo avrebbe fatto meglio cantandoli.

Una seconda importante ragione fu certamente anche quella che egli privilegiava il significato simbolico del liuto derivante dalle sue origini mitologico-musicali: i poeti del primo umanesimo scambiarono ed in qualche modo assimilarono, come già accennato sopra, il liuto alla lyra mitica di Orpheo e Anfione, e per essi non fu probabilmente tanto importante il fatto di suonare o essere virtuosi dello strumento, quanto quello di, in tal modo, assimilare sè stessi e la propria poesia alle figure dei miti musicali.

Petrarca fu vicino ed ebbe corrispondenza regolare con quasi tutti i grandi musici del suo tempo, primo fra tutti Philippe de Vitry, il grande codificatore della nuova stagione musicale trecentesca che prese il nome di Ars Nova proprio dal suo trattato del 1322.

Nel testamento del poeta è scritto che avrebbe lasciato il suo liuto ad uno degli amici, Tommaso Bambagi, affinché potesse cantarci le lodi dell'Onnipotente e non solo canzoni profane, informandoci in tal modo anche dell'utilizzo dello strumento in repertori sacri e paraliturgici.

"Magistro Thome Bambasie De Ferraria lego luutum meum bonum, et eum sonet, non pro vanitate seculi fugacis, sed ad laudem Dei eterni".

Dunque ne possedeva uno, e lo usava per accompagnarsi nel canto; suggestivo pensare che proprio con l'ausilio di quello strumento compose ed intonò alcune delle sue celebri canzoni.

Da notare che, come accadde per Dante, non solo i sonetti di Petrarca furono musicati (ed ancora lo sono) per secoli dopo la sua morte, ma anche che egli fu uno di quei poeti le cui liriche furono da subito messe in musica: la più antica intonazione di un testo petrarchesco — Non al suo amante — madrigale a due voci di Jacopo da Bologna — è infatti databile agli anni in cui il poeta era ancora in vita.

Giovanni Boccaccio notoriamente infarcisce l'intera sua opera più celebre, il Decameron, di musica e di concerti.

Nelle dieci giornate campestri di giochi, novelle e musica dei dieci giovani fiorentini, si susseguono altrettante ballate, interpretate con gli strumenti in voga, tra i quali il liuto di Dioneo che accompagna balli e canti.

Siamo legittimati a questo punto a pensare al giovane Dioneo come ad uno di quei cantori al liuto fiorentini di fine trecento che incontrano il nostro interesse in questa sede.


Simone Prodenzani ed altri giullari

Con le sue rime, nella sua più celebre opera Sollazzo e Saporetto, il Prodenzani lascia intendere una spiccata preparazione musicale: mettendo in scena il giullare Sollazzo, esperto cantore e suonatore di chitarra (chitarra italiana, quindi un piccolo liuto), rende un servizio preziosissimo ai musicologi attuali — che considerano l'opera un vero tesoro di informazioni — illustrando con dovizia la performance e il repertorio dell'epoca, nonché il suo arrangiamento e riadattamento di brani polifonici per strumenti solisti.

Merita una breve menzione anche il sommo e celebre Francesco Landini, musico e poeta coronato di lauro del quale tutto ben si conosce, s eppure spesso stupisca la sua passione per il liuto e per l'interesse che ebbe verso gli strumenti a corde (lui che fu celebre come virtuoso degli organi), e che lo portò addirittura a inventare e costruire strumenti — sempre a corde — come la Syrena Syrenarum, una sorta di liuto con un riporto di corde fissate alla cassa a mo' di salterio o di arpa (fatto che acquista ovviamente grande rilevanza sapendo della sua cecità, che lo privò della luce sin da bambino).

Infine, con il rammarico e la certezza di averne tralasciati molti altri di innegabile valore, faccio breve menzione di quel Francesco di Vannozzo, curiosa figura di giullare sul finire del '300, cantore al liuto e suonatore di vari strumenti che divenne famoso nel nord Italia, ed il cui padre fu amico intimo di Petrarca.


I Cantori al Liuto conclamati: i Maestri

La nobile pratica del cantare al liuto fu appannaggio soprattutto degli umanisti, che come già detto vi ritrovavano un intero universo mitico e leggendario.

Ma veniamo ora al Cantore al Liuto vero e proprio, conclamato sul finire del '400 e celebrato per tutto il secolo seguente. Per ragioni di spazio mi limiterò unicamente a citare le molte figure storiche ed a tracciare, solo per alcune, dei brevi tratti biografici e stilistici. In questo primo elenco riporto i nomi di coloro la cui pratica di cantore al liuto è storicamente accertata da varie fonti, prima tra tutte il trattato Lucidarium in Musica di Pietro Aaron del 1545, privilegiando — sicuramente a torto — i nomi di alcuni personaggi noti anche per essersi distinti in altre discipline, come la filosofia e la pittura.


Leonardo Giustiniani  (Venezia ca. 1383–1446)

Oltre che poeta e musico, fu umanista, uomo pubblico e politico, che rivesti incarichi prestigiosi a Venezia come quello di Procuratore di San Marco.

L'influenza che la sua opera esercitò sui contemporanei fu talmente pervasiva che il genere di canzone veneziana che egli creò prese il nome di "giustiniana". Erano canzoni dal tema prevalentemente amoroso che egli usava cantare in elegante dialetto veneziano — accompagnandosi con il suo liuto — caratterizzate da un particolare modo di abbellire la melodia, uno stile praticamente scomparso poiché veniva improvvisato dagli interpreti nel momento dell'esecuzione, cosa che andò ad alimentare il mito del cosiddetto "segreto del quattrocento", ovvero quell'insieme di pratiche musicali, soprattutto legate al canto, che andò perduta in quanto mai tramandata in scritti. Tuttavia alcuni musicologi hanno recentemente identificato, in alcune frottole del libro sesto di Ottaviano Petrucci, alcuni passaggi che sarebbero da far risalire al tratto stilistico proprio della giustiniana.


Serafino Ciminelli Aquilano o dall'Aquila  (L'Aquila 1466–Roma 1500)

Fu responsabile di un importante rinnovamento nel genere del canto accompagnato al liuto: le novità che introdusse furono dovute ad una maggiore e più pregnante fusione tra il testo della parola cantata e la parte strumentale, e con molta probabilità anche allo stile liutistico. Questa notizia è riportata dall'umanista Paolo Cortese, che lo vide esibirsi. Difficile ricostruire i tratti del suo stile liutistico, mentre è noto che il cantato era improntato alla più grande dolcezza.

Il liuto negli anni in cui egli si mosse era prevalentemente suonato col plettro, il che significa a grandi linee che si suonava una linea melodica, ma, come già detto, vi fu una tecnica mista di plettro e dita, che lasciava agli esecutori anche la libertà di suonare passaggi accordali, ad esempio insieme ad una voce di tenore. E' lecito pensare che lo stile di Serafino sia da ricollegare proprio a questa tecnica perduta, che sopravvisse apparentemente solo per pochi anni.

Certo è che la sua influenza e la sua fama furono enormi: egli frequentò varie corti tra cui Napoli, Urbino, Mantova, venendo a contatto con i più grandi letterati e umanisti del suo tempo, dei quali, si può ben dire, egli fu uno degli esponenti di maggior spicco.

Autore delle rime che poneva in canto, tra le quali sopravvivono epistole amorose in rima, tre egloghe a carattere pastorale, due atti (l'Oroscopo e l'Orologio), una Rappresentazione allegorica della voluttà ed un'altra dal titolo Virtù e fama che venne rappresentata tra il 1495 e il 1497 presso la corte di Mantova, oltre a numerose rime di vario tipo, come strambotti, sonetti e capitoli ternari.


Pietrobono Bursellis o del Chitarrino  (Ferrara? Bruxelles? 1417–Ferrara 1497)

Sebbene egli sia generalmente noto come virtuoso dello strumento — quel chitarrino o chitarra italiana da cui ricavò il suo pseudonimo — e come insegnante di musica, passando alla storia per aver insegnato l'arte del liuto a personaggi eccellenti dell'epoca, tuttavia egli fu anche cantore, e si accompagnava con la cetra mentre intonava poemi in versi ispirati a celebri storie d'amore di personaggi del suo tempo, trasformandoli così in personaggi semi-mitologici. Così riferisce Antonio Cornazzano nel Canto VIII del suo poema Sforziade, dove si trova la Laudes Petri Boni Cytariste, lode in versi la cui unica copia oggi conservata a Parigi. Nel De Excellentium virorum principibus, altro poemetto del Cornazzano, il Bursellis viene descritto come cantore a liuto oltre che liutista.

La celebrazione della fama di Pietrobono, già in vita, e soprattutto dopo la sua morte, raggiunse toni encomiastici: molti poeti e umanisti scrissero poemi in sua lode, ed ebbe l'onore di essere addirittura effigiato in due monete ferraresi.

La sua tecnica sullo strumento fu prevalentemente quella del plettro, ornamentando la parte superiore di brani polifonici nell'esecuzione dei quali si faceva accompagnare da un altro liutista, che lui stesso definiva "il mio tenorista" cioè addetto a suonare parti di tenor, le parti di fondamento delle composizioni a più voci. Il Tinctoris lodava le sue "superinventiones", che con ogni probabilità erano "improvvisazioni" di carattere strumentale scaturite dalla sua fantasia o derivanti da melodie popolari, adattate poi a tutte le possibilità tecniche offertegli dal liuto. Il suo stile sopravvisse per molti anni dopo la sua morte, fino a perdersi nell'oblio della tradizione non scritta; ma si può tentare di ricostruirlo in base alle varie sopracitate lodi, che ne descrivono minuziosamente i tratti salienti.


Hayne van Ghizegnem  (ca. 1447–1497)

Compositore del nord Europa, ereditò lo stile del Maestro Ockeghem. Di lui, il poeta Guillaume Cretin ebbe a scrivere, nel poema in lode della morte del grande compositore Ockeghem, che cantò sul liuto il mottetto Hut Heremita Solus, addolcendo gli animi degli astanti prostrati nel dolore, testimonianza che consolida l'ipotesi che il liuto accompagnasse anche la musica sacra e liturgica.

Tra gli altri più noti ed importanti cantori al liuto della prima generazione, dei quali molto si conosce, vi furono Francesco Bossinensis, Marchetto Cara, Bartolomeo Tromboncino, Cosimo Bottegari; alla seconda generazione appartennero invece Ippolito Tromboncino, Scipione Cerreto, Giacomo Gorzanis, Giulio Caccini, Bartolomeo Barbarino, Bartolomeo Gazza.


Filosofi, pittori e Principi: i Cantori al Liuto per diletto


Marsilio Ficino  (Figline Valdamo 1433–Careggi 1499)

Figlio del medico personale di Cosimo de' Medici, fu un celebre filosofo e umanista, oltre che traduttore di testi latini. Di lui si sa anche che, in virtù di quel neoplatonismo dilagante del quale fu un fondamentale profeta e portavoce, amava dilettarsi di musica, come tutti gli studiosi suoi contemporanei. Fu amico di Poliziano e di Pico della Mirandola, e sono fondamentali i suoi scritti sulla musica — soprattutto alcune lettere tra le quali quella del 1484 sui principi della musica indirizzata a Domenico Bentiveni, membro dell'Accademia Platonica Fiorentina in cui si ripropone spesso la relazione tra macro e microcosmo (fu anche astrologo e interessato agli aspetti della magia) nei concetti pitagorici e tolemaici delle meccaniche celesti. Amava intonare versi accompagnandosi con la sua orphica lyra, forse un suo particolare liuto o altro strumento a corde, nella cui armonia poteva ritrovare gli antichi precetti dell'armonia universale.


Pico della Mirandola  (Mirandola 1463–Firenze 1494)

Intellettuale neoplatonico vicino a Ficino, girò l'Italia in una vita breve ed avventurosa.

Non fu immune al fascino esercitato dalla musica, e come riferisce Walker nel suo studio Le chant Orphique de Marsile Ficin, cantava le sue poesie "ad lyram".


Federico da Montefeltro – Lorenzo de' Medici – Leonello d'Este

Il binomio sovrano/musica trova in questi tre Principi e Duchi rinascimentali la sua più chiara espressione, accostamento che risponde all'ideale umanistico di harmonia mundi. "Il principe deve assomigliare al musicista" scriveva Ficino nella sua Politica, "deve saper unire le voci gravi a quelle acute per fondare il suo regno sull'armonia". Sembra di scorgere in queste affermazioni la figura di Federico da Montefeltro e del suo armonioso governo, lui che si distinse tra gli allievi di Vittorino da Feltre per le sue doti di musicalità, lui che possedeva una voce — come ci informa Vespasiano da Bisticci nella sua biografia — "gioconda e canora", ed eccelleva in quella nuova pratica così in uso di accompagnarsi con uno strumento a corde (forse proprio il liuto, visto l'amore per questo strumento testimoniato nelle decine di rappresentazioni che volle nelle decorazioni del suo palazzo).

Lorenzo de' Medici amava musicare ed eseguire egli stesso, accompagnandosi al liuto, le rime per le quali è ancora oggi ben noto.

Leonello d'Este fu anch'egli un cantore al liuto oltre che uno dei più grandi mecenati e committenti musicali della sua epoca.


Donato Bramante – Leonardo da Vinci

Poco si sa del Bramante poeta: ci sono rimasti di lui diversi sonetti, di tema amoroso e scher zoso, scritti mentre era a Milano prima del 1499, le sue rime rivelano lo sviscerato amore per Dante. E meno ancora si sa della sua attività — sebbene per diletto — di musico e cantore: il Vasari afferma infatti che il celebre architetto amava recarsi nelle taverne con la sua lira (un liuto?) per cantare in pubblico i suoi versi.

Leonardo, oltre che musico e cantore fu anche progettista di strumenti, a lui infatti si deve la costruzione di una strana lira da braccio, la cui cassa armonica era ricavata da un cranio di cavallo.

Altri cantori al liuto citati da Pietro Aaron nel Lucidario in Musicalibro IV, furono: Conte Ludovico Martinengo, Messer Ognibene da Vinegia, Marc 'Antonio Fontana Arcidiacono di Como, Francesco da Faenza, Angioletto da Vinegia, Jacopo da San Secondo, Camillo Michele Veneziano, Paolo Milanese.


Le "Donne a Liuto"

Una menzione particolare meritano poi le cosidette Donne a Liuto, ovvero il corrispettivo al femminile dei cantori al liuto, così come le definisce Aaron. Erano cantanti virtuose, improvvisatrici e liutiste, ed al pari dei loro colleghi al maschile entrarono spesso nelle dinamiche dell'alta società e ne fecero pienamente parte grazie alle loro doti musicali. Tra le tante artiste, di molte delle quali ci restano soltanto i nomi, spiccano le personalità di:


Virginia Vagnoli  (Pienza 1540?–?)

Figlia di Pietro, liutista, fu l'astro più celebrato della corte roveresca allorché il Duca di Urbino Guidubaldo II l'assunse nel 1564, insieme ad altri musici compositori del calibro di Costanzo Porta e Paolo Animuccia, per il servizio musicale della sua cappella privata. Virginia si esibiva alla corte di Guidubaldo nella segretezza e l'implicita preziosità delle manifestazioni musicali roveresche private o concesse alla presenza di qualche ospite illustre, ma sempre nell'irripetibile estemporaneità della performance improvvisativa resa tangibile dalla forma del canto solistico accompagnato, che fu soprattutto a Urbino e Pesaro sempre ricercato e praticato.

In una lettera del Card. Giulio della Rovere del 1567 si legge

"per trattenimento la sera se li fece udire musica e particolarmente madama Virginia che sodisfece infinitamente"

Virginia dunque cantava e diminuiva madrigali sul liuto; a lei fu dedicato il Primo libro dei madrigali a 4 del mantovano Giovanni Maria Rosso del 1567.

Lodovico Agostini, cortegiano pesarese, la dipinge nelle sue Giornate Soriane impegnata a "cantare sul liuto alcuni madrigali di Alessandro Striggio". A lei furono dedicati inoltre poemi in rima ed encomi, che sottolineano sia la sua eccellenza che la novità ed eccezionalità della sua figura professionale.


Irene da Spillinbergo  (Spillinbergo 1540–1559)

Le notizie sulla sua vita ci sono tramandate da Dioniso Atanagi, cortegiano e giullare della corte urbinate sul finire del XVI secolo.

Il personaggio che ne traspare possiede un incanto ed un vigore unici: si trattò di un enfant prodige, infatti nella sua brevissima esistenza (mori nel 1559, a soli 19 anni) riuscì comunque a dedicarsi con incredibile successo alla musica, alla poesia e alla pittura. Nacque nel castello di Spillinbergo presso Udine nel 1541, e ricevette la sua formazione nell'ambiente veneziano.

Avviata allo studio del canto da Bartolomeo Gazza, (stimatissimo cantore al liuto veneziano, citato da Aaron), s i dimostrò ben presto incredibilmente dotata: in pochissimo tempo pervenne a una conoscenza tale che "cantava sicuramente a libro ogni cosa". Successivamente si dedicò alla nobile e raffinata pratica del cantare a liuto, dove eccelse ben presto, tanto che Atanagi afferma:

"Imparò infiniti madrigali in liuto, et ode e altri versi latini, e cantava con disposizione così pronta, delicata e piena di melodia che i più intendenti se ne meravigliavano".

Avendo ascoltato a Venezia alcuni allievi di Tromboncino cantare alla sua maniera, essa se ne impadronì col suo semplice naturale istinto e giudizio, e ben prestò fu in grado di cantare molte canzoni in quello stile particolare che prediligeva un tipo di canto improntato alla più grande dolcezza.

Irene fu anche pittrice; apprendista del grande Tiziano egli, nonostante accettasse malvolentieri discepoli, la elesse sua allieva prediletta.

Altre "donne a liuto" citate da Aaron: Antonia Aragona di Napoli, Costanza da Nuvolara, Lucretia da Correggio, Ginevra e Barbara Pallavicina, Isabella Bolognese, Susanna Ferra ferrarese, Franceschina e Marieta Bellamano, Helena Vinitiana.

Simone Sorini